Un giovane naufrago si trova “alla deriva” dopo un lungo viaggio attraverso “oceani senza navi”, completamente deserti. Fa del suo meglio per sorridere, ma un canto dolce giunge alle sue orecchie, assieme ad uno sguardo e a delle dita che sembrano volerlo accogliere. La voce lo attira verso un’isola, gli dice di far vela verso di lei. Glielo dice ancora, sempre di più, di far vela verso di lei, di lasciarsi stringere tra le sue braccia perché è lei è lì da sempre, da tanto tempo ormai ad aspettare di averlo con sé.

Pare tutto un sogno, ma il giovane naufrago è per la prima volta inconsapevole, non sa da dove tutto sia partito: chi è davvero la preda? La sua nave attracca e lui non può farci nulla. Vede altri innamorati infelici infranti su quegli scogli ma non è concentrato, distoglie lo sguardo perché sente di nuovo quella voce. La stessa che prima lo chiamava a sé e ora lo allontana, gli dice di tornare un’altra volta, mentre il cuore del naufrago cerca di schivare tutto quel dolore.

La confusione prende il sopravvento: il giovane si sente come un bambino indifeso, abbandonato in cerca di rifugio, spaventato di fronte alla marea, a ciò che pensava fosse tutto il suo mondo, l’unico possibile. Ora è tornato in sé, consapevole di aver perso. Si infrangerà come tutti gli altri? Dormirà assieme alla morte? Il giovane naufrago accoglie il momento e si mette a cantare, risponde invano a quella voce e le chiede di nuotare verso di lui. Glielo chiede ancora, sempre di più, di nuotare verso di lui, di lasciarsi stringere tra le sue braccia, perché lui è lì da sempre, da troppo tempo ormai ad aspettare di averla con sé.

Tim Buckley

L’eredità irlandese

Questa storia inizia il giorno di San Valentino del 1947, quando a Washington nasce Timothy Charles Buckley III: un futuro cantautore che porta il nome del nonno, uno dei primi irlandesi che all’inizio del XX secolo decise di scappare negli Stati Uniti. Il motivo è molto incredibilmente coerente con la storia del futuro cantautore: il nonno di Tim era un “hedgemaster“, uno dei “maestri clandestini” che in Irlanda trasmettevano le tradizioni gaeliche in clandestinità, poiché totalmente vietate del Codice Penale Britannico. La sua è una doppia tradizione: nelle sue vene scorre il sangue di “cantastorie e menestrelli” e quello di “oppositori dell’autorità”.

Non a caso, Tim dimostra da subito un talento musicale piuttosto spiccato, soprattutto perché sviluppato in totale autonomia. Da bambino, impara a cantare cercando di imitare il suono della tromba di Miles Davis: la sua è “una voce straordinaria” – “incontaminta e chiara come l’aria irlandese” -, ovvero il dono di quasi “cinque ottave di estensione” che gli permettono di “imitare il rumore degli autobus e delle macchine”. Così, il piccolo Tim inizia a farsi conoscere tra i suoi coetanei come vero e proprio intrattenitore e performer.

Ad ogni modo, non è un ragazzo popolare, proprio perché, sebbene riesca ad integrarsi perfettamente, continua a distinguersi, vittima di una forza centripeta, che lo avvicina agli altri, e di una forza centrifuga, che lo allontana insanabilmente; ad esempio, la sua capacità di raccontare “con assoluta serietà le frottole più inverosimili”. Tim mente molto bene, e spesso anche senza un motivo evidente: racconta a tutti “di essersi rotto un dito giocando a football”, incidente che non gli permette di “eseguire gli accordi in barré”. Probabilmente una bugia bella e buona, ma Tim diventerà Tim Buckley, artista musicale ricordato proprio per la sua caratteristica accordatura aperta.

Buckley vs. Buckley

Il vero problema del piccolo Tim non è tanto la gestione personale del suo talento, quanto il rapporto con un padre “troppo duro e militaresco”, poco interessato a se stesso e a chiunque altro. Mr. Buckley soffre di “sindrome d’affaticamento post-traumatico”: è stato arruolato per combattere in Normandia durante la Seconda Guerra Mondiale e porta una “calotta d’acciaio” proprio a causa di una mina antiuomo esplosa vicino alla sua testa.

Vittima del suo passato, il veterano Buckley si presenta come un tipo tanto “loquace e socievole” quanto “temibile e strano”: beve molto e a volte si aggira “per il giardino sul retro della casa avvolto in un lenzuolo”, altre volte organizza invece “manovre militari nel giardino di casa armato di fucile”. Tim è “spaventato al solo pensiero di poter diventare come lui”. Ma questo viene fuori solo più avanti, nella storia. Nel frattempo però il loro rapporto cresce in termini di conflittualità e tossicità importante: Mr. Buckley spesso insulta Tim e gli sbatte “la testa contro la macchina” per punirlo o per fargli entrare o uscire qualche idea ‘sbagliata’ dalla testa.

La fuga sbagliata

Tim si sposa giovanissimo con Mary, una bellissima ragazza di buona famiglia, dolce, educata e premurosa. Tim è completamente innamorato di lei, ma il matrimonio lo turba: la quotidianità lo spaventa fino a diventare “un peso”. Inoltre sente da parte di Mary la volontà di sminuirlo, soprattutto sul piano musicale: lei ama studiare, è determinata, suona il violoncello e conosce molto bene la musica classica. Tim forse non vuole adattarsi a questo tipo di confronto, o forse è fin troppo abituato alle umiliazioni, tanto da interpretare anche l’aiuto, il consiglio e il confronto come male. Mary capisce che lui ha solo “bisogno di una cameriera e non di una moglie”, di “qualcuno che pulisca, riordini, cucini”.

Questo perché Tim esiste solo per la musica: gira l’America in cerca di un contratto discografico e nel mentre frequenta altre donne. Mary ne è consapevole e si sente sola e abbandonata. Sa che Tim non le è fedele ormai da tempo, ma le sembra “del tutto accettabile”, perché è “un tipo stupendo”, mentre lei si sente “una nullità”. Entrambi però negano. E vanno avanti, così Mary rimane incinta. Ma non è vero.

Dopo un’emoraggia, si scopre che non c’era nessun bambino e nessun feto: forse Mary è “vittima di una gravidanza isterica o immaginaria”. Nulla di nuovo, in realtà: si tratta di una condizione tipica in “donne che soffrono di depressione o di una commistione di desiderio e paura della gravidanza”. Insomma, anche Mary ha il suo “conflitto interiore”: lo stesso disagio che porta Tim a sposarsi per fuggire, provoca in Mary “trasformazioni endocrine”.

Un contratto e un figlio

Mary non ha tutti torti: Tim colpisce soprattutto per il suo aspetto, ricorda “un Dylan più carino”. Riesce così a fare breccia e ad ottenere un contratto con l’Elektra Records: la sua vita si trasforma per la prima volta, non è più un “mezzo peridigiorno” ma uno che beve sherry per “caricare” la sua voce durante le pause in studio, mentre produce dischi.

Nel frattempo però la vita si trasforma una seconda volta, in poco tempo: Mary è incinta. Tim le dà un ultimatum: o l’aborto o il divorzio. Ma è il 1966 e Mary ha paura. Altri invece sostengono che Mary abbia messo Tim con le spalle al muro, dicendo “il bambino o la carriera”.

Nel frattempo però nasce Jeff Scott Buckley, ma suo padre non torna per vederlo e la madre lo giustifica, sa che “la sua vita musicale” è appena iniziata e che non puà di certo perdersela. Inoltre Tim sembra non sopportare più Mary. Pertanto la sua scelta di negarsi non è tanto dettata da una cattiva paternità: “non abbandono Jeff, abbandonò Mary”.

Tim frequenta Jane già da tempo e racconta ai suoi amici che “Mary lo aveva costretto a sposarla con il ‘trucco’ della falsa gravidanza”. Il conflitto in lui cresce e questo lo rende sempre più “cattivo”. Mary però riesce a rintracciarlo ma Tim fa finta di nulla e Mary non lo accusa: entrambi hanno capito di aver commesso un grande errore nell'”essersi sposati troppo giovani”, “un errore dovuto a ingenuità, ormoni e gioventù”. Così, i due decidono di divorziare ufficialmente nel 1967.

Gavetta e fatalismo

Dopo il singolo Wings, due giorni dopo la nascita di Jeff, esce Tim Buckley, un album fallimentare: solo 20 mila copie vendute e nemmeno tra i primi 200 di Billboard. “Un album grazioso ma niente di eccezionale”, un esempio di “folk liceale”. Tim forse non è cresciuto abbastanza.

Allora va a convivere con Jane ma conosce una terza ragazza, Marlene, e poi una quarta, una quinta e tante altre nei mesi successivi: la sua “combinazione di sensualità e delicatezza” è “pressoché irresistibile”. Le donne lo amano per la sua “vulnerabilità”, convinte “di potergli fare da madre, aiutarlo, portarlo sulla retta via, permettergli di realizzarsi.”

Lo stesso successo che però non si materializza sul piano musicale: gli viene offerto di aprire i concerti di Nico e Tim accetta, ma il pubblico non è presente, non è con lui. Nessuno lo ascolta, tutti lo ignorano. Tim diventa sempre più nervoso, la conflittualità in lui cresce, i fantasmi dell’umiliazione tornano e con loro, anche la voglia “di essere altrove”. L’Elektra lo spinge a scrivere qualcosa per la radio e nasce così Once Upon A Time: una ricetta perfetta per il periodo storico, fatta di messaggi contro la guerra e di un arrangiamento psichedelico.

Tim però non è soddisfatto. La conflittualità in lui cresce ancora e tutta la sua ”essenza fatalista”, che non aspetta altro se non uscire, si riversa in Song To The Siren: un capolavoro, una “disperata ode a un amore irraggiungibile”. Un brano piuttosto convincente per l’etichetta, che decide di donarla al grande pubblico inserendola in un piccolo sketch nella sitcom The Monkees: Tim entra in scena con addosso i suoi soliiti “stracci” e inizia ad intonare il brano seduto sul cofano di una vecchia auto.

Verso l’autodistruzione

Dotato di una certa consapevolezza musicale, Tim definisce i suoi brani come “piuttosto impegnativi” e si comporta come “un cantante jazz”, terrorizzato dal ripetersi. Così, più la sua “dimensione anti-eroica” si fa “nitida”, più Tim tende a mordere “ogni mano” che lo tocca “per aiutarlo”. Con quell’aspetto da “trovatello bisognoso”, è comunque sicuro, sa di avere “una Rosie in ogni porto”: non cerca mai davvero aiuto, ma si avvicina, sussurra “cose carine”, per poi sparire e considerarsi “la vittima innocente delle macchinazioni femminili”. Allo stesso modo si comporta con la sua casa discografica: non dà ascolto, non vuole aiuto, non scende a patti, non vuole nulla di serio – ad esempio, vendere.

Tim si trasforma piano piano in un giovane sempre sulla difensiva, tendente al “martirio” mentre tutti rimangono a guardare. Nel frattempo i suoi testi iniziano a segnare un solco, trasformandosi in vere e proprie cronache, “uno specchio dei tempi” che riflette “una generazione di ragazzi e i loro problemi”

Dopo il concerto alla Philarmonic Hall di New York, il 14 marzo 1969, molte ragazzine salgono sul palco per dargli i loro bigliettini: sale “una ragazza alta, bionda e dallo sguardo adorante” che consegna a Tim un garofano. Lui lo guarda e inizia a “masticarne alcuni petali e poi sputarli”, dicendo che “hanno un gusto tremendo”.

Tim era insicuro. Insicuro della stessa “insicurezza che si era insinuata in lui durante l’infanzia”, bloccato in un vortice inarrestabile, fermo immobile a chiedersi “perché dovrei piacere a qualcuno?”. Tim capisce che ai fan non interessa la musica, li definisce “parassiti della bellezza”, li insulta pubblicamente durante le performance chiamandoli “lo-bos” – lobotomizzati.

Sempre più ossessionato o “innamorato del mito dell’artista fallito e incompreso”, si rivede in Van Gogh, certo della sua infallibile formula: “se fai qualcosa di intelligente, il pubblico ti odia”, di conseguenza, “se invece piaci, allora sei uno che non vale niente”. Per questo, non vuole più far parte della scena rock – un genere “prefabbricato” -, ora è un jazzista: dimentica ciò che ha fatto in precedenza, gli album passati, “no, non li suono più” dice al pubblico, e li invita ad andarsene. Corre veloce e nessuno gli sta dietro. Nessuno comprende più “il suo nuovo linguaggio musicale”.

L’Elektra è delusa da Tim – per fortuna però il contratto con i Doors è pronto. Il giovane cantautore è allora obbligato ad andarsene e a passare con la Straight Records, l’etichetta che vanta un esordio con Frank Zappa, il quale però disdegna “la musica di gente che se ne sta seduta in un angolo a parlare di ‘emozioni'”, come Tim, perché “non sa aprirsi ai diversi aspetti della realtà”.

Un naturale malessere

Tim sperimenta da sempre le droghe, ma ora è un jazzista. Il che è peggio. Perché significa incontrare per la prima volta l’eroina: una sostanza che lo trascina in una condizione “fetale di pace e serenità”, lo rilassa ed è tutto ciò di cui ha bisogno, da sempre.

Chi gli sta attorno inizia a cercare dispertamente un perché: i sensi di colpa verso il figlio? La situazione discografica? Il secondo matrimonio di Mary? Mentre gli altri pensano, Tim è al verde e decide così, su consiglio della casa discografica, di partecipare come attore nel film Why? di Stoloff. Fa un provino ma crolla “al suolo in posizione fetale”, probabilmente a causa dei “crampi indotti dall’eroina”. Il regista però è convinto: Tim è adatto al ruolo perché riesce a comunicare “un naturale malessere”. Infatti, al di là delle telecamere, Tim ottiene così su un piatto d’argento l’occasione perfetta per tirare fuori tutto il suo dolore e l’odio verso suo padre.

L’esperimento però fallisce: il film circola poco per poi sparire per sempre. La musica nel frattempo non è da meno: dischi “senza senso” e “pieni solo di urla”. Tim si comporta sempre in modo più autodistruttivo: fa parte dell’industria musicale ma vuole “allo stesso tempo fingere di essere qualcos’altro”. Si autoboicotta costantemente, si comporta come “un uomo disperato, spaventato”, si ubriaca troppo spesso e canta con la voce “di uno che non sa più come combattere il sistema”.

Il management gli sta sul collo e i concerti sono sempre meno. Tim passa il tempo a stare male e a piangere, sentendosi sempre più “messo da parte”, immobile a guardare una nuova generazione musicale mentre segue la sua lezione. Esce così Starsailor: un altro disco incredibile e un altro fallimento.

In studio è pulito e si comporta bene, ma si dà la zappa sui piedi cercando di non “scrivere sempre le stesse cose”; a casa, invece, si autodistrugge con droghe e alcol. Tim è sempre più “instabile”, così come le sue relazioni sono sempre più “debordanti”: è impulsivo, compulsivo, ha tendenze suicide, è dipendente da sesso, denaro e stupefacenti e ha un rapporto tossico con il cibo. Il suo stile di vita lo uccide, è sotto gli occhi di tutti, sopravvive in una “cronica sensazione di vuoto”. Viene descritto come “un uomo morto”, già morto, di quelli da evitare per non morire insieme a loro.

La sua vita finisce a Santa Monica, il 29 giugno 1975, quando Tim ha solo ventotto anni: tutti sono abituati a vederlo in pessime condizioni, infatti nessuno è preoccupato. Anche se Tim non si sveglia, nessuno chiama i soccorsi. Una dose di eroina di troppo e Tim si ritrova addormentato, “tutto sudato” e “cianotico”. Ogni tentativo è vano. Il suo sangue non ha più ossigeno.

Il diavolo, gli scogli e le sirene

Tim Buckley non è morto per un incidente, per una dipendenza giunta troppo in là. Tim Buckley rappresenta un esempio di morte per consapevolezza: un giovane troppo consapevole del proprio passato e presente, ma poco del proprio futuro. L’unica cosa che non conosceva, è tutto ciò che ha sempre cercato: il futuro, il meglio, il cambiamento. Dietro di sé è rimasto un lascito musicale di una sofisticatezza e delicatezza senza precedenti: un costante sguardo interiore che non si è mai limitato ai contenuti ma che si è diffuso anche sulla forma, curata in ogni dettaglio per non ripetersi mai. Un’ossessione che ha reso la sua musica simile all’aspetto di un’anima.

Tim ha vissuto in compagnia dei suoi mostri, che danzavano di fronte alla sua anima, mentre questa sbatteva contro gli scogli e si abbandonava a se stessa senza resistenza, ovunque capitasse. Un disagio lungo quanto un viaggio fino al momento della pace: viaggio che Tim ha usato per cantare canzoni, tragicamente consapevole di essere “troppo giovane per capire più a fondo”. Ha chiesto al mondo “per favore puoi trovare il tempo?”: il tempo per ascoltarlo intonare un’altra canzone. Ma il mondo a cui si è rivolto non era così consapevole, era una folla di ciechi di fronte ad una sorgente luminosa, ecco che allora l’unica speranza rimasta a quel giovane, fu quella di intonare le sue canzoni alle sirene.

Nel mio mondo il diavolo danza e si azzarda
a lasciare la mia anima ovunque capiti
finchè non troverò pace in questo mondo
canterò una canzone ovunque potrò
troppo giovane per capire più a fondo

Tim buckley, sing a song for you

Riferimenti

Browne, D. Dream Brother: Vita e Musica di Jeff e Tim Buckley. 2000. Giunti Editore.

Buckley, T. Sing A Song For You. 1969. Happy Sad.

Buckley, T. Song To The Siren. 1970. Starsailor.