“Non è la luce che finisce, è il ciclo che cambia respiro.”

Nell’arco dell’anno celtico, ogni stagione è un rito e ogni festa un posto tra il visibile e l’invisibile. Tra la fine di giugno e l’inizio di agosto, le celebrazioni di Litha e Lughnasadh marcano un passaggio sottile ma profondo: la luce, che ha raggiunto il suo apice, inizia a declinare. Questo è il tempo dei raccolti, dei bilanci e dei miti solari. Un viaggio tra simboli antichi, divinità dalle molte sfaccettature e cicli eterni che continuano a parlarci, anche oggi, nel cuore dell’estate.

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Il tempo dei Celti che danza

Per i Celti, il tempo non scorre come una linea retta. Non si consuma in una marcia inarrestabile verso la fine, ma pulsa in cerchi, respira in cicli, si rinnova con ogni stagione. La Ruota dell’Anno – quella sequenza armonica di otto festività che accompagna la terra nel suo eterno movimento – è la prova più concreta di questa visione. Ogni passaggio è sacro, ogni snodo del tempo porta con sé un messaggio.

È tra il solstizio d’estate e l’inizio di agosto che il tempo cambia voce. Il canto del sole, fino a quel momento trionfante, inizia ad abbassare il tono. È qui che si innesta il passaggio da Litha, il giorno più lungo dell’anno, a Lughnasadh, la prima festa del raccolto. Un passaggio che non è solo astronomico, ma profondamente simbolico: la luce, ormai piena, comincia a declinare. Il sole, pur splendente, ha già iniziato a morire.

Litha: l’apice della luce

Litha – che cade attorno al 21 giugno – segna il culmine del potere solare. È la festa del sole alto nel cielo, della vita religiosa, dei fiori che esplodono nei campi e dell’energia che trabocca da ogni cosa. È un momento di pienezza, di esuberanza, ma anche di equilibrio precario. Perché, come ogni cime, anche questa è destinata a cedere.

Nel simbolismo celtico e neopagano, il solstizio d’estate è spesso rappresentato dalla figura del Re Quercia, che ha regnato dalla primavera fino a questo momento, e che ora viene sconfitto dal suo gemello oscuro, il Re Agrifoglio, signore dell’autunno e dell’inverno. Non è una battaglia cruenta, ma una resa. Il Re della Luce depone la corona, consapevole che il suo tempo si è compiuto. La ruota gira e lo fa con una dolcezza inesorabile.

Lughnasadh: la festa del raccolto e della soglia

Lughnasadh (o Lammas, nella tradizione anglosassone), si celebra il 1° agosto, ed è dedicata a Lugh, una delle divinità dei Celti più luminose e poliedriche del pantheon celtico. Lugh è il dio delle arti, della guerra, della parola e dell’ingegno: una figura solare ma anche strategica, che incarna la perfezione dell’essere umano nel suo equilibrio tra forza e intelligenza.

Secondo il mito, Lugh istituì questa festa in onore della sua madre adottiva Tailtiu, morta dopo aver dissodato la terra per renderla coltivabile. La celebrazione nasce dunque da un atto d’amore e di gratitudine, ma porta con sé un sottotesto più profondo: il raccolto è sempre frutto di un sacrificio. La terra non dona nulla gratuitamente. Qualcuno, qualcosa, deve sempre morire affinchè la vita possa continuare.

Lughnasadh è un momento di abbondanza e festa, ma anche di consapevolezza. È qui che si comincia a fare i conti con ciò che è stato seminato, con ciò che si può davvero raccogliere e con ciò che è andato perduto.

Il dio che muore

Nelle mitologie di molte culture indoeuropee, la figura del dio morente è centrale. Egli rappresenta la vegetazione che cresce, fiorisce, si offre in dono e poi muore, per rinascere con la stagione successiva. Lo vediamo in Tammuz, in Osiride, in Dioniso, in Adone. E, in modo più implicito ma altrettanto potente, in Lugh.

Lugh non muore letteralmente nei miti, ma la sua festa si colloca in un tempo in cui la luce comincia a cedere e ciò basta per evocare l’archetipo. Il raccolto stesso è un atto di morte: il grano viene tagliato, separato dalla terra e trasformato in nutrimento. È un gesto quotidiano che porta con sé un significato sacro. I Celti, profondamente legati al ritmo della natura, sapevano riconoscere questa sacralità.

Nel mietere il campo, celebravano la generosità della terra e il ciclo della trasformazione. Ogni spiga recisa era una piccola offerta, ogni pane cotto una preghiera, ogni festa una promessa di rinnovamento.

Il senso del ritorno

Oggi, lontani dai campi e dal contatto quotidiano con la terra, rischiamo di dimenticare il linguaggio dei cicli. Eppure, qualcosa sopravvive. In ogni nostra estate sentiamo il tempo rallentare, poi farsi più sottile. Avvertiano che la luce, pur splendente, non è eterna. Le giornate si accorciano impercettibilmente e un velo dorato si posa sulle cose.

Lughnasadh ci parla proprio di questo: del momento in cui si accetta che la pienezza non può durare e che ciò che abbiamo ricevuto va onorato, celebrato e – quando serve – lasciato andare. È un tempo per fare bilanci, per ringraziare, per restituire.

Nel suo cuore c’è una saggezza antica: quello che matura deve essere colto e quello che è stato raccolto non può essere trattenuto per sempre. La vita è un ciclo di doni e di ritorni e la vera armonia sta nel saperli riconoscere.

E se ciò che resta da imparare non fosse come trattenere la luce, ma come lasciarla andare senza perderne il senso?

Riferimenti

Carr-Gomm P. The Druid Tradition: Insights into Druidry. 1996. Thorsons.

Green M. J. I Celti. Miti e leggende. 1998. Newton Compton Editori.

Matthews C. Il libro celtico del vivere e del morire. 2002. Edizioni Crisalide.

Matthews J. La ruota dell’anno celtica. 1992. Edizioni Mediterranee.

Restall Orr E. Spirito della Natura. Il pensiero spirituale dei Celti. 2004. Xenia Edizioni.

OBOD (Order of Bards, Ovates & Druids)

The Celtic Wheel of the Year