Oceano Mare (1993) di Alessandro Baricco inizia così:

Potrebbe essere la perfezione – immagine per occhi divini – mondo che accade e basta, il muto esistere di acqua e terra, opera finita ed esatta, verità – verità – ma ancora una volta è il salvifico granello dell’uomo che inceppa il meccanismo di quel paradiso […] basta il barlume di un uomo a ferire il riposo di ciò che sarebbe a un attimo dal diventare verità e invece immediatamente torna ad essere attesa e domanda […].

Alessandro baricco, oceano mare, p. 11

La semplicità intollerabile del mare è quella che Baricco descrive e che Bresh mette in musica con il suo ultimo album Mediterraneo. “Nessuno ne parla, ma tutti lo sanno”, scrive Baricco, nessuno ha il coraggio di dirlo cos’è davvero il mare, e per Bresh, con la prima traccia del disco Rotta Maggiore (Partenza), sembra che sia proprio giunta l’ora di raccontarlo per ciò che è davvero.

Dopo anni passati soli e concentrati su se stessi, immobili a guardare la porta e le mura della propria casa sperando che crollassero, ad un certo punto ci si accorge che non ci sono chiavi, non ci sono serrature che permettano di uscire. Il “villaggio delle fate” di Andrea\Bresh è ciò che da sempre gli ha permesso di “scappare troppo lontano” in un mondo bello ma “solo immaginato”, quella fantasia naif e portuale al tempo stesso che lo contraddistingue. Pertanto è ora di sentirsi bene nel proprio equilibrio pericoloso, raccogliere con le mani il destino, accogliere la penna ferma da tempo sulla scrivania e iniziare a scrivere un nuovo racconto.

mare

Bresh si racconta come un marinaio alla ricerca del mare stesso, quesito che anche Baricco trascina per tutto il suo romanzo, che giunge poi ad un’illuminazione per entrambi, forse la stessa:

Sembrava uno spettatore, perfino silenzioso, perfino complice. Sembrava cornice, scenario, fondale. Ora lo guardo e capisco: il mare era tutto. è stato, fin dal primo momento, tutto. […] lui era l’odio e la disperazione, era la pietà e la rinuncia, lui è questo sangue e questa carne, lui è questo orrore e questo splendore. Non c’è zattera, non ci sono uomini, non ci sono parole, sentimenti, gesti, niente. Non ci sono colpevoli e innocenti, condannati e salvati. C’è solo il mare. Ogni cosa è diventata mare. Noi abbandonati dalla terra siamo diventati il ventre del mare, e il ventre del mare è noi, e in noi respira e vive. […] e finalmente so che questa è la sconfitta di nessun uomo, giacché solamente è trionfo del mare […].

Alessandro baricco, oceano mare, p. 101-102

“Per chi ha le calze bucate e i pensieri coi nodi” l’unica possibilità è lasciar vincere il mare, raccontarlo non più come sfondo o cornice della propria crescita, ma come unica possibilità di esistenza stessa, come unico protagonista. Mediterraneo è allora una presa di coscienza nemmeno troppo leggera, in un momento storico dove ci si accorge sempre di più – sebbene troppo tardi ormai – che la natura innanzitutto è, mentre noi al massimo possiamo respirarla, viverla, mentre cadiamo e ci rialziamo immersi sbadatamente in noi stessi:

Sono vittima del vento di Kamala
Cavalco l’onda come l’elica di un canadair
Sento la pinna dello squalo, mi segue, vado al riparo
Non so dove scappare, non siamo al lago
Diviso in mille pezzi come sfere del drago
Se nulla si distrugge, mi hanno trasformato
Di testa Gandhi, di mano un soldato
E adesso cerco un pezzo di Andre per ogni Stato

Bresh, kamala

La sensazione di non riuscire a scappare da un luogo in realtà molto aperto, quale il mare – rispetto al lago – è in realtà dovuta non tanto ad una questione di confini o rive, quanto di ontologia umana, di nuovo. L’unico luogo al mondo “in cui puoi pensare di essere nulla” è proprio il mare, che “non è vita vera” e “non è vita falsa”, ma solo “tempo che passa” e nient’altro. Un “purgatorio” appunto, una meravigliosa bellezza incrinata “da cui non puoi scappare”.

La seconda questione è invece di tipo piuttosto ‘deontologico’, se così si può dire: “il mare chiama”. Bresh si definisce “vittima” di un vento, perseguitato ovunque, ancorato ad un’identità frammentata, sparsa “per ogni Stato”:

Non smette mai, ti entra dentro, ce l’hai addosso, è te che vuole. Puoi anche far finta di niente, ma non serve. Continuerà a chiamarti. […] Succederebbe in qualsiasi paradiso, e in qualsiasi inferno. Senza spiegare nulla, senza dirti dove, ci sarà sempre un mare, che ti chiamerà.

Alessandro baricco, oceano mare, p. 74

L’eco della chiamata è fondamentale per Mediterraneo: un concetto che raccoglie la maggior parte dei ritratti nelle tracce dell’album riguardo il mare, il vecchio scontro tra mare che uccide e mare che incanta, mare che commuove e mare che spaventa, mare che costruisce e mare che distrugge, mare che chiama, mare che allontana.

Torcida già molto tempo fa ci aveva fatto capire di che cosa si trattasse effettivamente: “la vita mi illumina la strada per l’uscita” scriveva Bresh in un brano che torna anche in Mediterraneo. Però di nuovo e ancora, nient’altro che mare dipinto con il mare, ritratto con la sapidità dell’acqua di mare, descritto con la limpidezza dell’acqua di mare.

Il vento che si alza è una costante, il modo più vecchio che la natura ha per parlarci attraverso i suoi elementi. Partendo dal male: Tarantola riprende l’immagine del rapimento aracneo, l’incantesimo di cui il soggetto è vittima mentre guarda per terra i propri passi, addolcito e avvelenato da ciò che pensa sia solo uno sfondo, ma che in realtà lo sta inglobando per sempre.

Ma per cambiare favola
Dovrò riunire il mio cuore alla macchina
Rispondere al silenzio di una notte che non dorme
E chiede una risposta all’anima
Mi morde come una tarantola
È come un’anaconda che mi strangola
Se la carezza è morbida e mi punge
È come se fosse il veleno di una bambola

Non ho voglia di pensare a niente
Ho solo voglia di ritornare da te
E anche se ne sono dipendente
Cerco un modo per staccarmi, ma non c’è

Non puoi chiedermi perché
Voglio ritornare sempre da te
Sono appassionato di tempeste
Cerco un’onda che si spacchi su di me

BRESH, TARANTOLA

In quello che è forse uno dei brani più belli dell’album, Bresh riassume alla perfezione, in un due brevi versi, tutte le idee che si possono avere di dipendenza, tossicità, prigionia e soggezione di fronte a qualcosa percepito come più grande di noi: “sono appassionato di tempeste \ cerco un’onda che si spacchi su di me”.

Ora è spiegato l’enigma del granchio che ha appassionato tanto i giornalisti nelle interviste durante il Festival di Sanremo di quest’anno. La soluzione “per cambiare favola” è andarsene, la più logica, prendere posizione con polso rispetto all’indolenza della propria mente e finalmente darsi una risposta. Ma non basta. E perché?

Perché Bresh ha la stessa ‘malattia’ – che “non è proprio una malattia” – della giovane Elisewin:

Non è proprio una malattia, potrebbe esserlo, ma è qualcosa di meno, se ha un nome dev’essere leggerissimo, lo dici e già è sparito. […] un terrore bianco, voglio dire non era come uno che ha paura, era come uno che stesse per scomparire.

ALESSANDRO BARICCO, OCEANO MARE, P. 14

Il morso della tarantola annulla, come le onde che intervallano creazione e distruzione all’infinito, incantano e rintronano inevitabilmente fino al “terrore bianco” che è paura del mare stesso, del fine che possa avere un’entità-sfondo quando si fa entità-ribalta. Baricco lo scrive, “non te ne accorgi di quanto rumore faccia” fino a quando non giunge il buio e “tutto quell’infinito diventa solo fragore, muro di suono, urlo assillante e cieco”. Per un marinaio è il peggio che si possa pensare. Ma è anche il meglio, perché il mare è l’unico “posto dove prendi commiato da te stesso”:

Quello che sei ti scivola addosso, a poco a poco. E te lo lasci dietro, passo dopo passo, su questa riva che non conosce tempo e vive un solo giorno, sempre quello. Il presente sparisce e tu diventi memoria. Sgusci via da tutto, paure, sentimenti, desideri: li custodisci, come abiti smessi, nell’armadio di una sconosciuta saggezza, e di un’insperata pace.

alessandro baricco, oceano mare, p. 154

Ma “la mente insperatamente resta”, direbbe Patrizia Valduga, e così è anche per Andrea/Bresh, per cui la speranza resta, quella che ti porta a pensare che il mare sia anche qualcos’altro.

E qui veniamo al bene: La Tana del Granchio nascondeva una canzone, come dice il testo, quindi un raggio di luce nel buio oscuro della chiusura intestina, il vento che soffia e la consapevolezza che “se il mare è salato è perché un marinaio ci ha pianto sopra”. Allora il mare non è paura e solitudine, ma anzi è il contenitore di un dolore che unisce, un luogo di comprensione e ritrovo per se stessi. Il mare diventa speranza anche per Elisewin:

Sarebbe dolce, la vita, qualunque vita. E le cose non farebbero male, ma si avvicinerebbero portate dalla corrente, si potrebbe prima sfiorarle e poi toccarle e solo alla fine farsi toccare. Farsi ferire, anche. Morirne. Non importa. Ma tutto sarebbe finalmente, umano. Basterebbe la fantasia di qualcuno – un padre, un amore, qualcuno. Lui saprebbe inventarla una strada, qui, in mezzo a questo silenzio, in questa terra che non vuole parlare. Strada clemente, e bella. Una strada da qui al mare.

alessandro baricco, oceano mare, p. 49-50

Questo è proprio ciò che Andrea/Bresh vuole diventare, e lo dice nella sua dichiarazione d’amore Agave: “Vorrei essere un cartello sopra le autostrade \ che alla svolta non ti fa girare \ ma ti porta solamente al mare”. Bresh potrebbe salvare Elisewin, volendo, e tornare a farla correre. E assieme a lui ci sarebbe l’Aia che tia: il brano è un testo interamente in genovese che racconta la possibilità di vedere il vento oltre che sentirlo. La musica di Bresh ha in effetti questa capacità: l’unione di testi, personalità descrittiva e sound, permette di “vedere e basta”, inteso come “stare davanti, noi e le cose”, “ricevere – senza domande”.

L’aspetto fondamentale nel riuscire a ‘vedere e basta’ viene solo dopo. Sarebbe la comprensione delle “cose vere”, anche quella “più insopportabilmente e atrocemente vera”, ovvero il fatto che il mare “é uno specchio”, nel cui ventre è possibile vedere se stessi, o meglio vedere davvero. Il testo del brano è ricco di immagini suggestive e mitologiche: la strega sul campanile, il portuale, i vicoli, le onde, gli scogli, le partite, il bar e la boa rossa. Un universo “delle fate”, quella favola da cui è ovviamente difficile staccarsi:

L’âia che tia, che-a me tiâ sciù
Derê dai mónti l’é sciortî u sû
Ü m’á scôrrio da dosso i brùtti pensê, ma ü murû brùttù l’è ü më

bresh, aia che tia

In tutto questo, la costante oltre al mare è sempre il vento che soffia, spinge il protagonista verso il basso, “con implacabile cortesia” lo spinge “dentro il mare”, ma è un’aria che viene da dietro i monti, dove è sorto il sole, simbolo di una possibilità vera di scappare, di fuggire dai mostri e di ‘scrollarsi di dosso i brutti pensieri’, ma rimane però Andrea, oltre ai pensieri e i suoi piedi sono fermi a terra. Andrea (forse) questa volta non vola. Ma canta e intona al “vento buono” una preghiera dolce ma disperata, che come la malattia di Elisewin, è leggerissima che se la dici già è sparita:

Vento bun
Famme cianze se vëgne via u sû
Che-a lùnn-a aspeta into çê
A g’à spréscia de iniciá u mestê

bresh, aia che tia

Andrea prega al vento perché non prega a Dio, sebbene sia uno dei protagonisti del suo viaggio lungo il Mediterraneo. Altezza cielo con Kid Yugi è il tentativo disperato del marinaio in preda ai venti di trovare un nemico che non sia più il mare o il vento stesso, ma qualcuno di simile, vicino, distruttibile:

Non sei un padre, non sei nemmeno una madre
Non sei un video, non sei un libro che mi piace
Hai la barba, la uso per idealizzarti
Non sei un giovane, porti i capelli bianchi
E non hai carne, non hai ossa, sei una tunica su un viso
Sei la mano che fa ombra, sei la luce, sei un’onda
Sei l’errore che fa crescere, la mista che mi cade
Sei tu che tieni il volante quando sbanda l’astronave
E, quando sbagliamo la strada, perdiamo la direzione
Pochi gli attimi di gloria, troppi gli anni di dolore
Ci siamo giocati il tempo sopra il numеro migliore
Sembra che la tеrra ruoti grazie ai passi e l’impressione
Che mi dai, che tu mi dai
È di cambiarmi la strada perché sai dove portarmi
E colpirai, mi tradirai
Con un colpo a altezza uomo
Io risponderò ad altezza cielo

bresh ft. kid yugi, altezza cielo

Ecco che qui cambia il protagonista corrispondente nel romanzo di Baricco. Da Elisewin si passa a Padre Pluche, un uomo che ha un rapporto tormentato quanto ironico con il Signore.

Padre Pluche scrive preghiere con titoli molto lunghi e piuttosto irriverenti, per certi versi anche sovversivi: turbato da una “strada che corre” mai dritta o storta, ma che “si disfa” sotto i suoi piedi, “presa da improvvisa libertà”, Padre Pluche chiede a Dio di ascoltarlo perché “il mare confonde le onde, i pensieri, i velieri, la mente e le strade”, anzi “prende i pensieri di pietra che erano strada, certezza, destino e in cambio regala veli che ti ondeggiano in testa”.

Il problema di Padre Pluche è che non trova le parole per “spiegare com’è che non hai più risposte a furia di guardare il mare”.

La risposta, come Bresh, Padre Pluche la cerca ad altezza cielo, da dove ogni cosa è nulla, la stessa che è invece “così grande” per un uomo. L’unica speranza per salvare un uomo, pensa Padre Pluche, alla fine è “un sogno”. Anche Andrea/Bresh ha perso il conto dei passi e dei segnali che Dio gli manda per la strada, mentre le orme sulla sabbia si disfano e i sentieri che il giorno prima sembravano nascondere una via, spariscono inghiottiti dalle onde.

Nel brano Dio è una figura attiva e contrastante, quasi vendicativa ma in modo tragicamente inconsapevole: “colpirai, mi tradirai” canta Bresh, forte di una possibilità di risposta da uomo a ‘uomo’.

Dio, come il mare, salva e uccide, garantisce e punisce, è una “corsa malsana e senza sosta verso un orizzonte” che “manco si sposta”, una “fuga disperata e ottusa da un passato” che se sfiorato “frantuma” – scrive Kid Yugi. Come l’uomo ha fatto con Dio, anche Andrea/Bresh farà con il mare, ovvero – con le parole di Baricco: “spazzare secoli di schifo – l’orrendo mare grembo di corruzione e morte – e inventare quell’idillio che a poco a poco si diffonde su tutte le spiagge del mondo”.

La disperazione però giace nell’impassibilità del Mediterraneo che, “puoi fare qualsiasi cosa ma stai certo che te lo ritrovi al suo posto, sempre”: un mare che da una decade a questa parte ha provocato più di 30 mila morti e dispersi, una delle rotte migratorie tra le più letali al mondo, come trasformarlo in porto sicuro?

Conclusione

Come è iniziato il viaggio di Mediterraneo? Con un racconto necessario, questo “perché davanti a lui”, il mare “noi senza croci, senza vecchi, senza magia, dobbiamo pur averla un’arma, qualcosa, per non morire in silenzio, e basta”. Questo Bresh ce lo fa capire semplicemente prendendosi la responsabilità di provare a “dire il mare”, perché “non importa a chi” viene detto, “l’importante è provare a dirlo”. “Qualcuno ascolterà”. Così accade con album come questi, nati dalla necessità da cui può, come no, conseguire un ascolto, leggero o profondo che sia.

Il messaggio che Andrea\Bresh sembra voler lasciare, permette di nuovo di riportare in causa Elisewin:

Volevo dire che io la voglio, la vita, farei qualsiasi cosa per poter averla, tutta quella che c’è, tanta da impazzirne, non importa, posso anche impazzire ma la vita quella nn voglio perdermela, io la voglio, davvero, dovesse anche fare un male da morire è vivere che voglio.

ALESSANDRO BARICCO, OCEANO MARE, P. 28

“Ce la farò, vero?” chiede Elisewin. Sì, perché con il mare, alla fine dell’album, si fa pace.

In effetti, si racconta di un marinaio che riuscì non solo a dirlo il mare, ma a benedirlo, a far pace con il mare, con Dio e con se stesso: semplicemente, abbassò gli occhi, immergendo una mano nell’acqua e disegnando lentamente il segno di una croce. Così si racconta. “Un gesto da niente” che srotola il mare che smette di essere “enigma”, “nemico”, “silenzio” e diventa “fratello”, “grembo mansueto”, “spettacolo”. Insomma, “guardi il mare, e non fa più paura”.

Un altro marinaio – forse addirittura lo stesso – diceva invece che “ci sono tre tipi di uomini” che hanno a che fare con il mare: “quelli che vivono davanti al mare, quelli che si spingono dentro il mare, e quelli che dal mare riescono a tornare”. Si dovrebbe chiedere ad Andrea – non più Bresh adesso – in quale di questi uomini si rivede, per poi aggiungere solo una seconda e breve domanda: ma adesso, guardi il mare, e fa ancora paura? In fondo, “il limite è il cielo“, e forse, il cielo soltanto.

Riferimenti

Baricco, A. Oceano Mare. 1993. Feltrinelli.

Bresh. Agave. Mediterraneo. 2025.

Bresh. Aia che tia. Mediterraneo. 2025.

Bresh. Altezza cielo. Mediterraneo. 2025.

Bresh. Il limite. Mediterraneo. 2025.

Bresh. Kamala. Mediterraneo. 2025.

Bresh. La tana del granchio. Mediterraneo. 2025.

Bresh. Rotta Maggiore (Partenza). Mediterraneo. 2025.

Bresh. Tarantola. Mediterraneo. 2025.

Bresh. Torcida. Mediterraneo. 2025.