Ci sono uomini destinati a essere ricordati non per le parole scritte o pronunciate, ma per il modo in cui hanno sfidato il destino. Cavallo Pazzo (Tashunka Witko), leader dei Lakota Oglala, non lasciò dietro di sé discorsi altisonanti o lunghe trattazioni filosofiche. Non firmò trattati, non si piegò mai ai voleri di Washington e non si fece mai ritrarre in un dipinto o in una fotografia. Eppure il suo nome evoca la storia di un uomo che combatté fino alla fine per la libertà del suo popolo.

Un uomo diverso dagli altri
Cavallo Pazzo non nacque con un’aura di predestinazione. Non era figlio di un capo e, all’inizio, non aveva nulla che lo differenziasse dagli altri ragazzi Lakota. Poi, qualcosa cambiò. Fin da giovane, mostrò uno spirito ribelle e indipendente. Schivava le cerimonie tradizionali, vestiva in modo insolito e preferiva restare lontano dagli accampamenti principali. Aveva un modo di combattere che sfiorava il mistico: si lanciava in battaglia senza paura, senza armatura, dipinto con polvere bianca e con una piuma tra i capelli.
Ma prima ancora di diventare un guerrieri leggendario, c’era il suo nome. In lingua Lakota, Tashunka Witko è spesso tradotto come “Cavallo Pazzo”, ma il significato non è esattamente quello che si potrebbe pensare. “Witko” non significa “pazzo” nel senso occidentale di “folle”, ma piuttosto “visionario”, “ispirato”, qualcuno che vede il mondo in modo diverso dagli altri. Il nome gli fu tramandato da suo padre, che in gioventù lo aveva portato prima di lui.
Per i Lakota, i nomi erano carichi di significato e potevano cambiare nel corso della vita di un individuo, in base alle sue gesta e alla sua personalità. Cavallo Pazzo portava il nome di un uomo che sfidava le convenzioni, che vedeva oltre la realtà ordinaria e che cavalcava senza paura non solo nei campi di battaglia, ma anche nei mondi dello spirito.

Per i Lakota, la guerra non era solo una questione di conquiste, ma un’arte, un atto spirituale, una danza con la morte. Cavallo Pazzo incarnava questa filosofia più di chiunque altro. Non era solo un guerriero: era un uomo che sembrava appartenere a un altro mondo, uno spirito libero in un’epoca che cercava di ingabbiarlo.
La guerra contro l’Impero delle Giacche Blu
Per quanto il governo degli Stati Uniti tentasse di dipingere le guerre indiane come scontri tra “barbari” e “civilizzatori”, la realtà era molto più semplice: i bianchi volevano le terre e i nativi non volevano cedergliele. Quando l’oro venne scoperto nelle Black Hills, nel 1866, territorio sacro per i Lakota, il destino di Cavallo Pazzo si intrecciò con quello dell’esercito americano.
La prima grande dimostrazione della sua genialità militare arrivò proprio nel 1866 con la Battaglia di Fetterman. In quella che fu una delle peggiori sconfitte dell’esercito americano, Cavallo Pazzo e un manipolo di guerrieri attirarono il Capitano William Fetterman e i suoi ottanta uomini in un’imboscata. Bastarono pochi minuti: nessun soldato occidentale sopravvisse.
Ma la vendetta dell’esercito non si fece attendere. Negli anni successivi, i Lakota si trovarono sotto attacco costante. I coloni si riversavano nelle loro terre, i bisonti venivano sterminati per affamare i nativi, e i trattati stipulati si rivelavano essere carta straccia non appena smettevano di far comodo a Washington. Una grande lezione per Cavallo Pazzo, che proprio per questo non firmò mai nessun trattato. Sapeva che ogni parola scritta dai bianchi e firmata dai nativi rappresentava una solo cosa: resa.
La Gloria di Little Bighorn e la caduta degli Dei
Se c’è una battaglia che ha reso immortale il nome di Cavallo Pazzo, è senza dubbio quella di Little Bighorn del 1876. Il famigerato generale George Armstrong Custer, uomo con più ego che senso strategico, pensava di poter annientare i Lakota, i Cheyenne e gli Arapaho con un solo attacco improvviso. Peccato che la sua idea fu quella di attaccare un campo di migliaia guerrieri nativi guidati da Cavallo Pazzo e Toro Seduto.
Il risultato fu quello che oggi chiameremmo un massacro: Custer e tutti i suoi uomini furono uccisi in quello che fu il peggior disastro dell’esercito USA nelle guerre indiane. Cavallo Pazzo guidò l’attacco con la stessa ferocia e determinazione di sempre, combattendo con il furore di chi sapeva di lottare per qualcosa che valeva la pena, più della propria vita: da qui, la sua famosa frase “oggi è un bel giorno per morire”.

Ma Little Bighorn non fu una vittoria duratura. Dopo il trionfo, la reazione americana fu brutale: l’esercito intensificò la guerra, costringendo i Lakota a una lenta e dolorosa resa. Nel 1877, con il suo popolo affamato e braccato, Cavallo Pazzo decise di arrendersi. Non perché avesse smesso di combattere, ma perché capì che la sopravvivenza della sua gente era più importante della propria battaglia personale.
L’ultimo respiro del Guerriero
Tashunka Witko aveva sempre sognato di morire in battaglia, ma non fu così, poiché la sua morte giunse per mano dei suoi stessi carcerieri. Quando Cavallo Pazzo fu portato a Fort Robinson, le autorità temevano che potesse ancora guidare una ribellione. Durante un tentativo di fuga, fu pugnalato alle spalle da un soldato americano. Così finì la vita di uno degli uomini più straordinari della storia: non con una battaglia epica ma con un vile tradimento dal soldato semplice William Gentles.
Ma chi credeva che la sua morte avrebbe cancellato il suo nome si sbagliava di grosso. Cavallo Pazzo, non lasciò discendenti diretti, non scrisse le sue memorie, non firmò nessun documento ufficiale, eppure il suo spirito è ancora lì, tra le rive dell’omonimo corso d’acqua Wounded Knee, nelle storie tramandate dai Lakota e nel gigantesco monumento scolpito nella roccia che, ironia della sorte, sarà probabilmente completato dopo il Monte Rushmore.

Il Guerriero e il suo Spirito
Per comprendere il profilo di Cavallo Pazzo è necessario comprendere la visione del mondo Lakota. La vita non era una semplice esistenza terrena, ma un viaggio sacro. Gli spiriti guidavano le azioni degli uomini, e la connessione con la natura era il fulcro dell’esistenza. Cavallo Pazzo, come molti grandi guerrieri, ebbe visioni che lo guidarono in battaglia. Una di queste gli mostrò un uomo invincibile, che cavalcava sotto una pioggia di frecce senza mai essere colpito. Quell’uomo era lui stesso.
La spiritualità Lakota non era un sistema di dogmi, ma un insieme di insegnamenti che legavano l’uomo alla terra e agli antenati. Il bisonte era sacro, il cielo era sacro, la lotta stessa era sacra. Cavallo Pazzo incarnava questa visione: non combatteva per la gloria personale, ma per mantenere l’equilibrio tra il suo popolo e il mondo che lo circondava.
L’uomo che mai si piegò
Cavallo Pazzo non è una figura del passato. È un simbolo eterno della resistenza contro l’oppressione, della libertà ad ogni costo, della dignità di un popolo che non accettò mai di essere ridotto a nota a piè di pagina nella storia. Non cercò mai il potere, non si lasciò mai comprare e non permise mai che il mondo dicesse lui chi doveva essere. E in fondo, non è questo che rende una leggenda davvero immortale?

Riferimenti
Ambrose, S. E. Crazy Horse and Custer: The Parallel Lives of Two American Warriors. 1996. Anchor Books.
Brown, D. Seppellite il mio cuore a Wounded Knee. 1970. Mondadori.
Marshall, J. M. The Journey of Crazy Horse: A Lakota History. 2005. Penguin Books.
Sandoz, M. Crazy Horse: The Strange Man of the Oglalas. 2008. University of Nebraska Press.
Utley, R. M. The Lance and the Shield: The Life and Times of Sitting Bull. 1994. Henry Holt & Co..
Marzo 7, 2025 alle 3:47 pm
Senz’altro articolo positivo e di facile comprensione….interessante l’argomento…
Marzo 7, 2025 alle 3:56 pm
Grazie! Ho voluto scrivere un articolo che fosse per un piacere comune.
Marzo 8, 2025 alle 11:23 am
La storia, dei nativi mi interesso particolarmente, quando ero un ragazzino. Solo che io, allora stavo dalla parte dei più forti. La documentazione a fine anni 70, era poca e di scarsa qualità. Poi con il passare degli anni ,incomincia a capire la realtà dei fatti. Articolo interessante e di facile lettura. Scorre piacevole e veloce,come l acqua fresca fra le dita .
Marzo 8, 2025 alle 11:42 am
Grazie! È bello sapere che l’articolo ha coinvolto. È vero, nel tempo la documentazione è migliorata e ha permesso di vedere la storia da una prospettiva più ampia. Sono felice che la lettura sia piaciuta!
Marzo 9, 2025 alle 5:04 pm
Complimenti: un bellissimo e scorrevole articolo che finalmente rende un po’ di giustizia ai poveri nativi Americani, bistrattati e dipinti per anni come bestie e selvaggi sia dal cinema che dai media.
Poi Balla con i lupi e altri films hanno reso un po’ di giustizia a queste grandi tribù.
Un articolo che dovrebbe essere pubblicato nella pagina culturale di ogni grande quotidiano.
Marzo 9, 2025 alle 5:10 pm
Grazie di cuore per le belle parole! Era proprio mio intento restituire un ritratto più autentico e rispettoso della storia dei nativi americani, andando oltre gli stereotipi imposti per troppo tempo. Il cinema, con film come Balla con i lupi, ha sicuramente contribuito a cambiare la percezione collettiva, ma c’è ancora molto da raccontare e da riscoprire. Il fatto che l’articolo sia stato apprezzato in questo senso mi rende davvero felice!