Avvertenze al lettore

Questa recensione è concentrata sul personaggio di Bob Dylan interpretato da Timothée Chalamet. Questo perché era di Dylan che volevo parlare e di Dylan nel “film su Dylan”.

Identikit del personaggio

Apparentemente indifferente alla catastrofe ma forse come è indifferente un luminare, un veggente, Tiresia la cui cecità inganna perché in realtà egli tutto vede. Non a caso il Dylan di James Mangold pensa di essere Dio e lo dice pure, del tipo “quante volte te lo devo dire? Sì”. Dylan forse ci ha fregati tutti con quella sua postura superiore ma goffa e leggermente gobba. Sapeva qualcosa e non ce lo ha voluto dire.

Concentrato su se stesso? Sì forse, ma sul se stesso inseparabile dalla chitarra, di chiunque essa fosse. Nel film compaiono tante chitarre – tantissime –, quasi ogni scena vede una chitarra, tanti momenti in cui i personaggi indossano chitarre: un gesto simbolico, importante anche perché ricorrente, ma forse Dylan non se la toglieva mai davvero di dosso. La chitarra si sa, leva l’imbarazzo al cantante. Dylan è di poche parole, poche battute nel film, ma tante canzoni, le più importanti praticamente tutte. Mangold rappresenta così un Dylan che preferisce esprimersi con i testi piuttosto che con la conversazione. È un peccato che non siano stati inseriti i sottotitoli delle canzoni per chi non conosce i testi o per chi non ha familiarità con l’inglese ascoltato. In quel tragico caso, metà del film è perso.

Disordinato sì, nelle abitudini e nelle scelte. Risposte sbagliate al momento sbagliato ma neanche troppo stronzo il Dylan di Mangold. Compare ossessivamente sullo schermo il ritratto di un giovane bohemien che passa da un appartamento all’altro, da un letto a un altro, da una chitarra all’altra, di fiore in fiore insomma. È questo quello che capita quando davvero le cose sembrano accadere solo nella tua testa e solo lì riesci a guardarle, ascoltarle e rimaneggiarle, mentre fuori continui semplicemente a vivere, vedendole, sentendole e fottendotene fondamentalmente. A quel punto vale la pena fare ordine solo in testa, il resto non conta, il resto è letteratura – quella che gli altri premiano, attraverso i premi ad esempio. Questo aspetto Mangold decide di sottolinearlo con l’ultima frase sullo schermo “He didn’t attend the ceremony”, come a darci ancora una volta conferma della sua natura forse stronza, forse indifferente, forse stanca, forse disordinata.

Misterioso sul suo passato come Robert Allen Zimmerman, aspetto che viene dato in pasto all’osservatore senza una soluzione – come tante altre cose d’altronde, ottima scelta – se non correre sul web e informarsi. Il nome di BD dei tempi del Minnesota appare ma evidentemente lì rimane, in Minnesota appunto. In Chronicles Volume 1 Dylan dice tutto a riguardo, quindi si può anche evitare di dilungarsi qui a questo proposito.

Tributo al patricidio

Tributo e patricidio dei padri di Dylan ben interpretato e rappresentato. Il suo rapporto con i padri musicali che tanto padri alla fine non erano nemmeno: un aspetto che spesso e volentieri passa invece inosservato. Pete Seeger, Leadbelly – solo menzionato –, Johnny Cash, Woody Guthrie… Dylan nel film diventa fratello dei suoi stessi padri, dei suoi idoli e alla fine decide di ucciderli. Facendo tributo esplicito alla cultura musicale folk americana, viene anche rappresentato il patricidio ad opera di Bobby che “si fa elettrico” e si scontra, con Seeger soprattutto che però comunque rimane padre e decide di non tagliare i cavi della sua band durante il Newport Folk Festival del 1965. Però di catarsi nemmeno l’ombra, Dylan è stato chiaro: “I ain’t gonna work on Maggie’s farm no more”.

I momenti più commoventi

I momenti più commoventi del film? Due. Il primo è il ritorno da Sylvie – ma non per il ritorno in sé ma per la frase del ritorno –, momento in cui Dylan si libera davvero per la prima volta di uno dei tanti demoni di un artista di quel calibro dicendo che tutti vogliono sapere da dove nascono le sue canzoni, ma che guardandoli negli occhi è chiaro che in realtà si stanno chiedendo perché non le abbiano scritte loro. Il secondo è la performance di The Times They are A-Changin’ dove si vede un Dylan spaventato che cerca di nascondersi dietro la sua minuscola armonica a bocca mentre la folla del Newport Festival 1964 urla come un coro da stadio il motto della canzone a fine di ogni verso.

I tempi stanno cambiando ma Dylan e la folla hanno in mente cose diverse. Questo è commovente e lui forse si ritrae perché lo sa. Dylan è stanco della sua stessa Blowin’ In the Wind, non ne può evidentemente più di quella canzone, di quel passato. Ma la folla vuole quello e questo elemento torna durante l’ultimo Newport Festival, quando dopo l’esibizione violenta con la band e le chitarre elettriche – durante la quale gli è stato lanciato addosso di tutto – Dylan concede – come a fare un favore a tutti – una It’s All Over Now Baby Blue alla chitarra acustica e se ne va, senza dire niente. Ora è tutto finito.

Vuole addirittura ridare indietro l’armonica a bocca a Woody che però lo ferma, forse perché la missione non è davvero conclusa. L’importante è rimanere un completo sconosciuto, imperscrutabile e imprevedibile. Come Dio, come il futuro stesso.

Il lavoro sul menestrello

Timothée Chalamet ha fatto bene il suo lavoro e lo ha preso alla lettera, pertanto si vede l’impegno. L’emulazione del bofonchiare confuso di Dylan, la chitarra suonata per davvero, la figura dalla postura ritratta e piegata su se stessa, lo sguardo strafottente e malinconico, l’aria dell’eterno sconosciuto. C’è tutto. Ma d’altronde Dylan rimane uno sconosciuto appunto, una pietra rotolante, e se anche Chalamet non fosse riuscito a prenderla e a mettersela in tasca, perlomeno l’ha seguita con lo sguardo attento mentre rotolava, studiandone ogni svolta. Il film si conclude subito dopo la svolta elettrica di Dylan – e sinceramente non me lo aspettavo ma comunque ormai 2 ore e 20 minuti erano passati. Sicuramente un lavoro diverso da quello di Todd Haynes in Io non sono qui (2007). Quello di James Mangold è un biopic con un taglio molto preciso, un ritratto molto sicuro di un lasso di tempo non tanto lungo, quattro anni dal 1961 al 1965 tutti passati a New York.

La colonna sonora

Like a Rolling Stone è sicuramente il brano del film, l’ultimo della triade elettrica che Dylan – nei panni di un giovane incosciente e ribelle – presenta al Newport Festival del 1965. Un’esibizione molto diversa da quella dell’anno prima con The Times They Are A-Changin’. Nel 1964 Dylan ha inconsapevolmente portato sul palco la rivoluzione dell’Unione, quella di un coro che canta all’unisono; un anno dopo emerge invece la rivoluzione della Divisione. Due atti di una stessa tragedia: la rivoluzione, appunto. Ed è un peccato che Mangold non abbia selezionato per il film anche My Back Pages, un brano del 1964 che Dylan ha raramente performato nei suoi concerti. Sia a livello stilistico che contenutistico si distacca dalle pagine del suo passato, dal sé di Blowin’ in The Wind, di Times They Are A-Changing. Un testamento prematuro di una prima morte di Dylan, la fine del primo atto. Forse sarebbe stata adatta per i titoli di coda. È impossibile non essere d’accordo con il testo: “Ah, but I was so much older then, I’m younger than that now”.